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Longevità al femminile: donne più attente alla prevenzione. Ma degli altri.

Intervista a Guendalina Graffigna

Articolo di SoLongevity
Guendalina Graffigna, professore Ordinario di Psicologia dei Consumi e della Salute e Direttore del Centro di Ricerca EngageMinds HUB – Consumer, Food, Health Engagement Research Center presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Cremona

“Le comunità, i paesi e, in definitiva, il mondo, sono forti quanto la salute delle loro donne”. Le parole sono di Michelle Obama, una donna che si è molto battuta – e continua a farlo – per la parità di genere e per la promozione della salute.

Partiamo proprio da queste parole per fare una riflessione. Si dice che se una donna sta male, sta male un’intera famiglia, eppure la salute delle donne, in tutto il mondo, è stata da sempre sottovalutata da diversi punti di vista.

Ma vi siete mai chieste perché i messaggi sulla salute e sulla prevenzione sono quasi sempre declinati al femminile?

Perché lo stereotipo culturale vuole che siamo noi donne, molto più degli uomini, ad occuparci della salute, anche di quella degli altri.

È un vecchio luogo comune o ancora davvero così? E come viene percepito il tema della longevità?

Lo abbiamo chiesto a Guendalina Graffigna, Professore Ordinario di Psicologia dei Consumi e della Salute e Direttore del Centro di Ricerca EngageMinds HUB – Consumer, Food, Health Engagement Research Center presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Cremona, che da tempo si occupa di salute di genere. Il suo impegno nella ricerca riguarda la psicologia dei consumi applicata allo studio dei comportamenti di salute, delle condotte alimentari e all’impatto delle nuove tecnologie sul sistema sanitario.

Professoressa Graffigna, partiamo dal cuore della nostra intervista: in che modo le donne percepiscono la longevità?

Le donne vivono nell’illusione che il genere femminile sia longevo, ma la convinzione di essere più pronte a invecchiare degli uomini è una trappola. Oggi sappiamo, infatti, che gli anni di vita in più sono caratterizzati da malattie croniche e comorbidità. Basti pensare alle malattie cardiovascolari, che dopo la menopausa diventano frequenti nel genere femminile quanto in quello maschile. Eppure non vengono riconosciute e trattate allo stesso modo, e le donne stesse spesso non ne hanno consapevolezza. Eppure, continuano ad essere la loro prima causa di disabilità e decesso.

Siamo indietro nella visione di genere della longevità in salute?

Sì, i due ambiti non sono separati. Abbiamo alle spalle 20 anni di finanziamenti europei sull’Active Ageing, eppure non si avverte la preoccupazione di capire se c’è una differenza tra anziano uomo ed anziana donna. Non ci sono molti studi su come invecchiano le donne, non c’è una visione dei ricercatori che vada a tipizzare in modo gender oriented la tematica. Se togliamo la ginecologia e le patologie che sono gender driven, per il resto non troviamo una vera differenziazione.

Per questo iniziative come “FemGevity” possono avere un valore importante, perché possono sensibilizzare l’opinione pubblica anche verso questi aspetti. Il nostro obiettivo dev’essere quello di fare scienza con le persone, per costruire una scienza sempre più equa: è questo l’imperativo etico che orienta la ricerca mia e del mio Centro di Ricerca EngageMinds HUB.

Come si comportano donne e uomini nei confronti della prevenzione?

Continuiamo a constatare che le donne sono di fatto più proattive nei confronti della salute, soprattutto nella prevenzione. Mostrano un maggiore livello di preoccupazione verso i fattori di rischio, sono più propense a partecipare agli screening e anche a cambiare comportamento. In gergo, diciamo che hanno un maggiore engagement: hanno un atteggiamento protagonista e concepiscono questo come fonte di benessere. Organizzano, gestiscono e si fanno carico anche della prevenzione altrui. Sempre in generale, l’uomo tende ad essere meno proattivo verso la salute, a passivizzare di fronte alle diagnosi: si pone in modo attendista, più bloccato e cade più facilmente in stati depressivi.

Questa differenza riguarda anche la sfera della salute mentale?

Sì, le donne appaiono in generale più pronte a mettersi in gioco per raggiungere il benessere psicologico, ma si ritengono anche più fragili degli uomini. Sono due facce della stessa medaglia, se ci riflettiamo. Il fatto di essere più sensibili al contesto sociale, più esposte al malessere psicologico e ad una visione più pessimistica, le rende più pronte al cambiamento. È un dato di fatto che anche la pandemia da Covid-19 abbia avuto un impatto maggiore sulla popolazione femminile, anche in termini di presa in carico delle persone più fragili e di perdita del lavoro.

Le donne caregiver perdono “tempo salute” rivolto a se stesse? Si curano meno?

Sì. Sappiamo da alcune indagini, per esempio, che le madri caregiver hanno un eccesso di mortalità per tumore, il che sottintende che partecipino meno agli screening o che trascurino campanelli di allarme. Servono azioni di sensibilizzazione ad hoc, ma soprattutto servono azioni concrete da parte delle istituzioni che sollevino le donne caregiver dal peso eccessivo che sostengono.

A suo avviso, la medicina di genere sta portando a una consapevolezza diversa nella società?

Sì, ma troppo lentamente. E intanto la società cambia.
Il gender, oggi, è molto più complesso di un tempo. La medicina di genere parte da una visione per lo più biologica, tenendo in poco conto la sfera psico-sociale, che invece è parte integrante di questo discorso. Manca una lettura che vada a cogliere le specificità psico-sociali di come la donna vive la salute. Qual è l’aspettativa di assistenza, di cura, di accompagnamento delle donne? Abbiamo bisogno di uno sguardo multidisciplinare per comprenderlo, ma in letteratura scientifica quasi non si trovano dati al riguardo. Si parla sempre di più di medicina di genere da un punto di vista clinico, ma quasi mai da quello organizzativo e dei servizi.

A quali specificità si riferisce?

Per i motivi che ho anticipato, il “burden salute”, cioè il carico della gestione della salute, per una donna è molto alto e non viene supportato adeguatamente. Inoltre, c’è un problema socio-culturale per cui la donna non si legittima mai a dichiarare se il peso che sente è eccessivo. Le donne hanno un burden oggettivo, ma non se ne rendono neanche conto, non se lo concedono. Lo vediamo anche nell’advocacy, la rappresentanza dei diritti dei pazienti di fronte alle istituzioni. Le donne fanno rete, creano comunità e associazioni pazienti di cui sono quasi sempre anche leader. Perché questa disproporzione tra uomini e donne? Perché sentono il bisogno di agire e reagire per la società.
Paradossalmente, però, non sentono la necessità di portare avanti un approccio di differenziazione di genere anche per le esigenze in ambito psico-sociale. Sarebbe invece importante legittimare l’esistenza di un fenomeno – la differenza di burden di una malattia per donne e uomini – che è reale. La ricerca in questo ambito è praticamente assente, c’è un retaggio culturale forte che genera stereotipi duri a morire.

Cosa pensa dell’impegno di SoLongevity nella ricerca per la longevità e l’invecchiamento in salute?

Finalmente si sta aprendo un nuovo approccio al tema della longevità, lontano dal miraggio del vivere sempre più a lungo e dal concetto puramente esteriore di invecchiamento.

Grazie all’innovazione medico-scientifica, si stanno facendo progressi importanti sui meccanismi fisiologici che sottostanno all’invecchiamento in salute e alla prevenzione.

SoLongevity interpreta molto bene il concetto di Longevity Medicine: i check up diagnostici innovativi e i protocolli di prevenzione su misura permettono di fare una vera medicina di precisione – e di genere – e vanno nella direzione della democratizzazione della salute e del benessere.

Guendalina Graffigna è Professore Ordinario di Psicologia dei Consumi e della Salute presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza e Direttore del Centro di Ricerca EngageMinds HUB – Consumer, Food & Health Engagement Research Center. Guendalina è altresì membro del coordinamento della Scuola di Dottorato in Psicologia, membro del direttivo del Centro di Ricerca di Ateneo TROFIC (Transdisciplinary Research In Food Issues Center) e della Commissione Etica del
Dipartimento di Psicologia della stessa Università. Dal 2020 è anche membro della Giunta del Dipartimento di Psicologia dell’Università Cattolica e dal novembre 2019 membro del Comitato Esecutivo della Sezione Organizzazioni dell’Associazione Italiana di Psicologia (AIP). Inoltre da maggio 2022 Guendalina è membro del Gruppo consultivo nazionale sulle vaccinazioni (NITAG – National immunization technical advisory group) istituito dal Ministero della Salute. Dal gennaio 2021 è Presidente del Centro Studi e Formazione di ASSIRM (Associazione Italiana Istituti Ricerca di Mercato, Sociale e di Opinione) di cui è stata Direttrice negli 8 anni precedenti. L’attività di ricerca scientifica di Guendalina si sviluppa a partire dalla prospettiva della psicologia dei consumi applicata allo studio dei comportamenti di salute, delle condotte alimentari e all’impatto delle nuove tecnologie sul sistema sanitario e allo sviluppo della comunicazione preventiva. Secondo il Database Scientifico Scopus è l’autrice che ha scritto di più al mondo sul tema del Patient Engagement.

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