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Longevità femminile. Le diversità che impattano la longevità delle donne

Intervista a Emanuela Notari

Articolo di SoLongevity Research
Emanuela Notari, Longevity Strategist and Developer of Corporate Demographic Intelligence, è esperta di tematiche di pianificazione ed economia della longevità, e sviluppo dell’intelligenza demografica delle aziende. Socia co-fondatrice di A.L.I. Active Longevity Institute, in precedenza è stata Direttore Editoriale di una piccola casa editrice finanziaria e prima ancora vanta una carriera ventennale in comunicazione e pubblicità culminata nel ruolo di Direttore Generale prima e CEO poi delle filiali rispettivamente italiana e messicana della multinazionale americana Young & Rubicam.

FemGevity nasce con l’idea di approfondire la medicina di genere e in particolare la medicina della longevità nel rispetto delle diversità femminili: fisiche e fisiologiche, ormonali, di invecchiamento biologico, di sintomatologia e di reazione ai farmaci. Consapevolezza, prevenzione, screening e trattamenti sono fondamentali per rendere sostenibile la nostra longevità. Ma forse non bastano. Ne parliamo con Emanuela Notari, longevity strategist impegnata sul versante della longevità di genere.

Dott.ssa Notari, la durata della vita si sta allungando sempre di più, anche per le donne, che però devono far fronte a molte difficoltà rispetto agli uomini. Quali sono le principali sfide che devono affrontare?

“La longevità porta a un prolungamento della menopausa che, pur vivendo noi 20 anni in più rispetto al 1950, continua ad arrivare più o meno alla stessa età. Inoltre, alcune clamorose sviste del passato nella ricerca e nel trattamento della salute delle donne, insieme con la maggiore longevità, hanno indotto un peggiore stato di salute del versante femminile della popolazione in età più avanzata, con più patologie croniche rispetto agli uomini, anche a parità di età. Mi piace partire proprio da qui, dalla salute. I dati più recenti dicono che in Italia c’è ancora una differenza di longevità notevole tra Nord e Sud, e guarda caso questa differenza a sfavore del Sud coincide con una minore copertura delle politiche di prevenzione, specie quelle femminili, l’inadeguatezza di alcuni centri ospedalieri ma anche con una minore spesa out-of-pocket, cioè quella che le famiglie destinano a cure o visite private. In un paese ideale la spesa out-of-pocket dovrebbe essere zero, ma, poiché il nostro Servizio Sanitario Nazionale sta perdendo colpi, poter contare su risorse economiche da destinare a un’integrazione del servizio pubblico può essere di grande aiuto per difendersi dai malesseri dell’età. Vivere bene così a lungo, in modo confortevole e sicuro, purtroppo costa.

E qui non si può fare a meno di considerare il capitale economico e finanziario delle donne. In Italia le donne percepiscono mediamente il 40% in meno di reddito annuale da lavoro (dato “non condizionato” – Rapporto Inps 2022) e il 37% in meno di reddito pensionistico rispetto agli uomini (Rapporto Inps 2022). Per decenni abbiamo lottato per la parità salariale, esultando l’attuale gap del solo 17% nel settore privato (che arriva al 22% per le laureate – Rapporto Inps 2022) e del 4% nel settore pubblico. Pur lasciando da parte il fatto che in alcuni settori e per i contratti a tempo determinato il divario salariale può ancora superare il 30%, a doverci preoccupare non è tanto la differenza di paga quanto la differenza di reddito annuale. Su questo indicatore la differenza la fanno le ore lavorate che per le donne sono spesso ridotte a causa del part time che pesa per oltre un terzo di quel magro 51% delle donne italiane che lavorano. Un dato clamorosamente inferiore alle media UE”.

Donne e lavoro: qual è lo scenario attuale?

“Anche se può sembrare paradossale, i paesi nei quali l’occupazione femminile è più alta sono anche quelli con più natalità. La mancanza di asili nido, di una maggiore diffusione dei congedi parentali paritetici, di equità nella suddivisione del lavoro di cura e domestico, di un’accoglienza non penalizzante del part time nelle aziende, frena il lavoro femminile ma scoraggia anche dal fare figli. Aggiungiamoci che il 75% dei cosiddetti caregiver familiari, persone che si occupano di un anziano di famiglia non indipendente, è donna, con una maggiore concentrazione nella fascia di età 45-55, proprio quella in cui le carriere svoltano e i redditi con loro. Non stupisce che tutto questo si traduca anche in un minor reddito pensionistico, a cui le donne provvedono ancora meno degli uomini con una forma di previdenza integrativa. Il gap di reddito pensionistico tra i generi oggi è di oltre un terzo in meno per le donne e ancora molte di loro già avanti negli anni non hanno pensione. Nel 2019 l’82% dei destinatari di un’integrazione al minimo pensionistico era donna (Istat). E domani, quando le pensioni saranno puramente contributive, saranno proprio donne e giovani, più esposti a precarietà, part time e lavoro informale, a farne le spese nella vita di tutti i giorni e tanto più in età pensionistica. Progetica nel 2022 pubblicò una simulazione che quantificava in 330 mila euro il reddito da lavoro e pensionistico perso nella vita lavorativa di una donna impiegata a tempo pieno con uno stipendio medio, che avesse interrotto la sua carriera per 3 anni alla nascita di un figlio e 4 per la gestione di un genitore non autosufficiente. Quante cose si possono fare con 330 mila euro?”

Quali altre dimensioni appesantiscono la longevità femminile o ne mettono a rischio la sostenibilità?

“Sicuramente il rischio solitudine e isolamento. L’aumento dell’aspettativa di vita è un trend ancora in crescita che già entro il 2050 ci porterà a una longevità media femminile di 90 anni. Degli oltre 900 mila ultra 90enni di oggi, la maggioranza sono donne. E la metà di loro soffre di demenze.
In Italia ci sono 4,5 milioni di donne over 65 che vivono da sole. Molte di loro sono vedove, alcune separate o divorziate con un trend in crescita dei divorzi cosiddetti silver che mette ulteriormente a rischio la tenuta economica di una donna matura. Le statistiche dicono che gli uomini che divorziano in età matura tendono a risposarsi, le donne no, rimangono da sole. Ma non serve un divorzio per restare da sole: mettendo assieme gli anni in più di sopravvivenza e la differenza di età media all’interno di una coppia, anche le donne felicemente accompagnate hanno davanti mediamente 6/7 anni di vita in solitudine, quelli che precedono gli 85 – i futuri 90 -, spesso in case che non sono state pensate per inquilini novantenni”.

Cosa possono fare le donne e le famiglie per proteggere la longevità femminile?

“Ci si può solo organizzare pianificando questa lunghissima seconda metà della vita che vedrà assumerci necessariamente più responsabilità del nostro tenore di vita futuro: le pensioni contributive ci consentiranno il sostentamento, ma della qualità del nostro tenore di vita siamo sempre più responsabili noi. Non è facile ma nemmeno impossibile purché si abbiano le idee chiare. Bisogna non sottovalutare il lavoro, quando c’è e si pensa che una baby sitter o un asilo ci costi quello che guadagneremmo e quindi conviene restare a casa. Non si contano mai i contributi né la crescita professionale che va perduta in questo calcolo e non si pensa nemmeno all’importanza dell’autonomia economica. Bisogna innanzitutto calcolare le capacità di risparmio caso per caso e stilare una lista in ordine di priorità: un fondo pensione e una polizza o una mutua sanitaria e Long Term Care appena le risorse economiche lo consentono. L’autonomia è tutto nella vita, nella seconda parte di essa ancora di più, specie per una donna”.

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