fbpx

Invecchiamento e fragilità, un processo diverso per donne e uomini. Ecco a cosa prestare attenzione

Intervista a Francesca Baglio

Articolo di SoLongevity
Array
Cos’è la fragilità legata all’età? E in che modo si manifesta nei due sessi? Ed è possibile prevenirla? Ce lo racconta Francesca Baglio, neurologa presso l’IRCCS Fondazione Don Carlo Gnocchi ONLUS di Milano e componente del comitato scientifico SoLongevity

Con Covid siamo ormai abituati a sentir parlare di persone “fragili”, e tra queste sono sempre annoverati gli anziani. Ma la fragilità è un concetto complesso, multidimensionale e, come mostra una recente ricerca condotta dall’IRCCS Fondazione Don Carlo Gnocchi ONLUS di Milano sulle fasi neurali della fragilità, si manifesta in modo diverso nelle donne rispetto agli uomini. Questo significa che è necessario utilizzare strategie diverse per fronteggiarla, che tengano conto di come realmente le persone dei due sessi invecchiano. Lo spiega Francesca Baglio, neurologa e tra gli autori dello studio “Differential Roles of Neural Integrity, Physical Activity and Depression in Frailty: Sex-Related Differences” pubblicato su Brain Science.

Dott.ssa Baglio, cos’è davvero la fragilità legata all’età?

Tanto per cominciare bisogna chiarire che l’età anagrafica non è un parametro oggettivo su cui possiamo basarci. Esiste, invece, un’età biologica che si associa alla resilienza, ossia alla capacità di recupero in seguito a uno stress esterno, per esempio un’influenza. Semplificando, sappiamo tutti che ci sono persone anziane in ottime condizioni, che vengono definite “robuste”, e altre meno “fragili”, e questo dipende dalle loro riserve fisiologiche, comprese quelle neurali. Possiamo intendere la fragilità come un progressivo decadimento delle condizioni cliniche: non è una patologia ma una sindrome.

Le donne diventano fragili nello stesso modo degli uomini?

No, donne e uomini hanno due profili diversi. Nelle donne la fragilità si associa spesso ad alterazioni del tono dell’umore, soprattutto alla depressione. Che, però, a sua volta è anche un fattore di rischio di altre condizioni neurologiche, come disturbi del sonno, deterioramento cognitivo e rallentamento neuropsichico. La depressione ha un’altissima prevalenza: colpisce una donna over 70 su due.

Negli uomini, invece, osserviamo più spesso a un indebolimento fisico: riduzione dell’attività fisica, sedentarietà e perdita sia dell’agilità, sia della resistenza allo sforzo, sia della forza muscolare. Insomma, possiamo parlare di un’affaticabilità crescente, che può essere valutata con scale specifiche. La riduzione dei livelli di  attività fisica potrebbe poi spiegare un aumento di tutti i fattori di rischio cardiovascolari nella popolazione maschile.

Per quanto riguarda gli aspetti cognitivi, infine, il dominio del linguaggio è quello che risulta spesso compromesso con l’età negli uomini, mentre nelle donne viene colpita soprattutto la memoria.

Queste informazioni possono essere usate per mettere a punto strategie di intervento per rallentare il processo di senescenza?

Ovviamente sì. Negli uomini gli interventi dovrebbero essere mirati soprattutto a stimolare l’esercizio fisico per recuperare livelli di attività persi o prevenirne l’ulteriore perdita. Tra l’altro, nel maschio stimolare l’attività fisica ha un impatto positivo anche sugli indici di integrità neurale. In generale, comunque, l’attività fisica aerobica e il ri-allenamento all’esercizio funzionano come un buon ‘fertilizzante’ per il cervello.

Nelle donne, invece, servono approcci di contrasto alla depressione, attraverso terapie farmacologiche quando necessarie, ma anche attraverso la promozione di attività di gruppo e ingaggianti per il recupero della socialità nella vita quotidiana. Nel nostro lavoro, per esempio, abbiamo preso in considerazione approcci riabilitativi basati sulla danza, perché è una attività non solo fisica ma anche socializzante che ha un impatto importante anche sulla depressione, sul recupero cognitivo e della memoria. Nordic Walking o trekking di gruppo sono altre attività ottime in entrambi i sessi.

Per quanto riguarda le malattie croniche come, ad esempio, quelle cardio-cerebrovascolari o polmonari ci sono differenze?

Sì. Negli uomini, rispetto alle donne, si associano maggiormente cronicità che comportano maggiori rischi sulla vita nel breve termine: parliamo per esempio di scompenso cardiaco o BPCO – broncopneumopatia cronica ostruttiva – dove le riacutizzazioni pongono un rischio immediato. Inoltre le stesse malattie si presentano, in media, in una forma più grave negli uomini che nelle donne.

Questo potrebbe spiegare quello che chiamiamo il paradosso della fragilità: le donne anziane hanno spesso maggiori comorbidità [la presenza contemporanea nello stesso soggetto di due o più malattie] degli uomini e sono in generale più fragili, eppure sono più longeve.

Tornando al contrasto della fragilità, quali approcci si utilizzano?

L’approccio migliore è sempre multidimensionale, fisico e cognitivo insieme, che tenga conto del genere e, personalizzato a seconda di chi abbiamo di fronte.

Per esempio stiamo facendo interventi con i fisioterapisti mediati dalla musica in pazienti con malattie neurodegenerative: la musica permette di attivare molte vie neurali e di fare quindi esercizio fisico non solo per il rinforzo motorio di equilibrio e mobilità, ma anche per il recupero di abilità sociali e cognitive.

Nel caso delle persone cardiopatiche, invece, inviamo le persone a frequentare centri che fanno attività fisica anche all’aperto come nel caso del Nordic Walking.

Nelle donne, poi, puntiamo molto su percorsi di potenziamento cognitivo, in particolare per la memoria. Le vie neurali sono come strade a cui bisogna continuare a fare manutenzione e sulla base del quadro cognitivo di una persona, si va a disegnare percorsi di potenziamento delle sue abilità residue o strategie di compenso cognitivo. Sempre più spesso si ricorre anche a tecniche di neurostimolazione elettrica, che sono ben tollerate in quanto prive di gravi effetti avversi con effetto sul lungo termine.

La perdita dell’udito, infine, è un altro fattore di rischio della fragilità su cui bisogna intervenire, perché porta le persone ad isolarsi. Bisognerebbe parlarne molto di più per convincere le persone ad affrontare questo problema, perché rappresenta ancora uno stigma.

Anche l’integrazione alimentare ha un ruolo nella prevenzione?

Non avendo a disposizione farmaci per le condizioni neurodegenerative – eccezion fatta per sintomatici quali ad esempio antidepressivi – la nutraceutica può andare ad aggiungersi a tutti gli interventi di cui abbiamo parlato. Ci sono integratori studiati ad hoc, con tutta una serie di evidenze da studi che mostrano come determinati principi attivi e loro combinazioni agiscono contro i meccanismi dell’ossidazione, o favorendo il benessere dei vasi sanguigni e, di conseguenza, della perfusione cerebrale. Alcuni principi attivi utili sono i precursori del glutatione come la polidatina, l’N-Acetil Cisteina (Nac) ed altri aminoacidi combinati che nella mia esperienza, per esempio, sono molto utili per contrastare la cosiddetta nebbia mentale. Altri principi attivi che regolano l’omocisteina si sono rivelati utili nella prevenzione delle comorbidità cerebro-cardiovascolare.

Dove possiamo trovare percorsi di prevenzione come quelli che ha descritto?

In genere, le persone si rivolgono al SSN quando è tardi, quando la disabilità è manifesta, mentre sarebbe utile attivare questi percorsi per prevenire la fragilità con molto anticipo. Pensate che molte malattie neurodegenerative si innescano 20 o persino 30 anni prima che si manifestino i sintomi. Bisognerebbe cominciare a fare delle campagne di valutazione dei fattori di rischio noti fin dall’età di mezzo, nell’adulto dai 50 anni, per intervenire precocemente con delle strategie mirate.

Per prima cosa, comunque, è fondamentale che le persone ne siano consapevoli.

Francesca Baglio è medico neurologo presso L’IRCCS S. Maria Nascente – Fondazione Don Carlo Gnocchi di Milano, dove è Research Coordinator del Laboratorio di risonanza magnetica (RMN), ed è Professore a contratto di Neurologia presso l’Università degli Studi di Milano. È membro del Comitato Scientifico di SoLongevity.
È autrice di numerose pubblicazioni scientifiche su riviste internazionali peer-reviewed e di oltre 80 contributi a conferenze scientifiche; è inoltre Associate Editor del Journal of Alzheimer’s Disease (JAD) e reviewer per riviste internazionali (Neurolmage, Journal of Alzheimer’s Disease, BioMed Research International, Biological Psychiatry, Frontiers Journals, Neurobiology of Aging).

Ultimi articoli pubblicati

Vuoi maggiori informazioni?