Come il razzismo e il sessismo, così c’è l’ageismo. Per chi non si fosse ancora imbattuto in questo nuovo termine, l’Accademia della Crusca lo definisce come “discriminazione, pregiudizio o marginalizzazione di una persona in relazione all’età; in particolare discriminazione nei confronti degli anziani”. Una emarginazione, quindi, eppure considerata accettabile e non riprovevole quanto le altre: basti pensare che secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha comportamenti ageisti una persona su due.
Questa parola si è affermata in Italia a partire dal 2020, ma il corrispettivo inglese da cui deriva, ageism, risale al 1969, introdotto dallo psichiatra e geriatra statunitense Robert Butler. Il motivo per cui è importante conoscere e riconoscere l’ageismo è che ha implicazioni profonde sia sulla società sia sul sistema salute di un paese. In particolare di un paese come l’Italia, dove l’invecchiamento della popolazione è una questione rilevante.
Ne parliamo con Eleonora Selvi, Presidente della Fondazione Longevitas.
Eleonora Selvi, perché è importante far entrare questo termine nel nostro linguaggio comune?
“Bisogna partire dal fatto che il linguaggio fa la differenza, perché è in grado di generare o frenare un cambiamento. Pensiamo, per esempio, alle implicazioni di utilizzare parole come razzismo, sessismo o femminicidio. La parola ageismo ha cominciato ad imporsi quando il Covid ci ha posto davanti a una scelta etica – quali persone accogliere in ospedale in una situazione di posti letto e risorse limitati – e ad una comunicazione fortemente discriminatoria: quel ‘tanto muoiono solo le persone anziane’. Da lì la domanda: che valore diamo alle diverse età? E l’ageismo non riguarda solo gli anziani: riguarda i giovani quando non vengono valorizzati sul lavoro, con conseguente spreco di energie e risorse, per esempio, o le donne che hanno un figlio non più giovanissime. Ecco perché è molto importante per tutti rendere questo termine di uso comune”.
Quindi è una questione prima di tutto culturale?
“Certamente. Dobbiamo cambiare la narrazione sulla longevità, in modo che non venga più percepita con un’accezione negativa, come un grande tsunami. E dobbiamo creare le condizioni per evitare la ‘guerra tra generazioni’ quando le risorse sono scarse. Intorno a questo motto, ‘changing the narrative’, a livello mondiale si stanno aggregando moltissime persone e, in alcuni casi, aziende. L’Italia, che è il secondo paese più longevo del mondo, dovrebbe essere un faro e guidare questo cambiamento. Invece, non vedo grandi movimenti da parte delle istituzioni: comunichiamo poco e male su questo tema. L’ageismo è ancora un tabù, per tornare alla questione delle parole: si preferisce parlare di invecchiamento attivo, piuttosto. Eppure l’OMS dà indicazioni chiare per contrastarlo, fornendo anche toolkit per la corretta comunicazione. Quello che vedo sono soprattutto movimenti dal basso”.
Come pensa che andrebbe considerata la longevità?
“Come una opportunità per tutti e per il sistema paese, nel momento in cui, però, riusciamo a creare le condizioni per cui sia realmente così. Mi riferisco alla silver economy, ai consumi legati agli stili di vita, ma anche alle creazione di reti per l’inclusione sociale, al contrasto all’isolamento, alla prevenzione attiva e all’educazione sanitaria, aspetti di cui ci occupiamo molto in Fondazione Longevitas, collaborando con università e enti locali. Dobbiamo ricordare che l’ageismo nei confronti delle persone anziane è uno sguardo negativo che porta ad associare l’età alla fragilità: quando viene interiorizzato, peggiora la qualità di vita. Un esempio? Se ho 80 anni e mi viene detto da tutti che ormai la mia vita non ha più valore, allora è inutile che io faccia prevenzione. Questo ha delle enormi ricadute sociali ed economiche. Uno studio apparso su Gerontologist su over 65 ha mostrato che la probabilità di morire entro 9 anni è del 45% negli anziani che hanno un’autopercezione negativa dell’invecchiamento, rispetto al 10% in chi non ha stereotipi negativi”.
Come attuare il cambiamento?
“Abbiamo individuato tre azioni chiave. Primo: promuovere sia campagne di sensibilizzazione ed educazione per riconoscere le discriminazioni basate sull’età e contrastarle, sia programmi di apprendimento permanente. Secondo: favorire le relazioni inter-generazionali, attraverso la creazione di ambienti luoghi di incontro inclusivi. Questo vuol dire ripensare gli ambienti urbani in un modo nuovo: non vogliamo città a misura di anziano, ma a misura di tutti. Altrimenti avremo ghetti. Un bell’esempio sono i luoghi sociali di quartiere di Roma: ex centri anziani ora divenuti centri in cui si svolgono tanti tipi di attività rivolte a tutte le età, con offerte culturali vantaggiose rispetto al mercato. Il terzo punto è il lavoro: una dimensione sempre più dinamica, che cambia in fretta e in cui dovremo stare sempre più a lungo. Le aziende rischiano, da una parte, di trovarsi con moltissime risorse mature, vivendole come un peso perché non hanno la cultura manageriale per poterle utilizzare nel modo giusto; dall’altra di sotto-utilizzare i giovani. Bisogna promuovere tutte quelle forme di mentoring tese a migliorare il rapporto tra le generazioni all’interno del mondo del lavoro”.
Parliamo ora dell’ageismo in ambito sanitario. Di cosa si tratta, esattamente?
“Delle discriminazioni, dei pregiudizi e degli stereotipi legati all’età nell’assistenza sanitaria. Basti pensare che il 40% degli over 85 con problemi di cuore è sottotrattato. Non vogliamo essere utopistici, perché sappiamo che il sistema sanitario nazionale è sull’orlo del default, ma deve esserci una visione complessiva che oggi a nostro avviso manca. A questo punta la Carta di Firenze, il primo manifesto contro l’agesimo sanitario, redatta da un panel internazionale di esperti a cui abbiamo partecipato, guidato dal presidente della Società Italiana di Gerontologia e Geriatria Andrea Ungar (il manifesto è pubblicato su European Geriatric Medicine e Journals of Gerontology, ndr.). Il documento elenca 12 azioni concrete per ridurre al minimo l’impatto negativo dell’ageismo nell’assistenza sanitaria. Prima di tutto, è necessario educare gli operatori sanitari. Inoltre, il 17 giugno è stata istituita la Giornata mondiale contro il maltrattamento degli anziani. Noi chiediamo all’Unione Europea di fare la sua parte e di spingere tutti i governi affinché il contrasto all’ageismo sanitario diventi mainstream.
Esiste un ageismo di genere? Le donne sono più discriminate?
“Per le donne l’ageismo si somma alla discriminazione di genere e i risultato è, a mio avviso, tra i più devastanti. Parliamo di una discriminazione largamente tollerata: la donna socialmente perde valore quando non è più sessualmente appetibile, e questo sposta l’attenzione verso una cura di sé che non è sana: un processo di trasformazione dei corpi che drena risorse economiche alle donne, e anche risorse psichiche. L’asticella si sta spostando sempre più in basso: guardiamo, per esempio, alla Svezia che ha dovuto mettere fuori legge il consumo dei prodotti anti-age per gli under 16. Anche l’esplosione dei prodotti cosmetici diretti alle adolescenti è una forma di ageismo guidato dal marketing: si è stabilito di abbassare l’età di consumo di determinati prodotti a scapito della sicurezza delle persone: è fondamentale che i genitori ne siano consapevoli e facciano da argine, ma anche che le istituzioni si assumano il compito di contrastare questo fenomeno. Credo che sia urgente un codice deontologico rispetto a questi temi, che diventeranno sempre più dirompenti. Senza una presa di coscienza, non sarà possibile tornare indietro”.