I preconcetti, quelli che in inglese si chiamano “bias”, possono essere insidiosi, nel senso che è facile caderne vittima senza nemmeno rendersene conto. A chi non è mai capitato di giungere a una conclusione affrettata nel tentativo di trovare una correlazione fra due variabili che sembrano in qualche modo influenzarsi a vicenda? Sembrano, ma magari non hanno alcun effetto l’una sull’altra. O forse sì, ma prima che il nesso sia solidamente dimostrato possono essere necessari anni e anni di ricerca scientifica. Ma che cosa c’entra tutto questo con il processo di invecchiamento e con il concetto di longevità? C’entra eccome, e lo spiega Bradley Elliott, ricercatore e docente di fisiologia presso l’Università di Westminster (Regno Unito), in un articolo che ha scritto per The Conversation.
Qual è la causa e qual è l’effetto?
Elliott si occupa di fare ricerca proprio nell’ambito della biologia dell’invecchiamento, cercando di capire in particolare i processi che causano la perdita di massa muscolare tipicamente riscontrabile con l’avanzare dell’età (sarcopeniaCon il termine sarcopenia s’intende la perdita progressiva di massa muscolare e la conseguente diminuzione della forza; oltre alla riduzione della massa muscolare, si va incontro anche ad un peggioramento di quest’ultima perché:
• il muscolo viene lentamente sostituito da tessuto adiposo (grasso),
• le giunzioni tra fibre muscolari e nervose (giunzione neuromuscolare) tende a degenerare,
• lo stress ossidativo a carico delle fibre muscolari aumenta.
). Uno dei suoi progetti di ricerca, per esempio, è focalizzato sullo studio di persone di età superiore ai 65 anni che sono riuscite a mantenere un livello di attività e prestanza fisica nettamente superiore rispetto alla media dei loro coetanei.
Ora, la domanda, spiega Elliott nell’articolo pubblicato su The Conversation, è la seguente: il fatto di essere attivi e in forma ha fatto sì che questi individui potessero godere a lungo di una buona salute, oppure, al contrario, è il fatto di non aver sviluppato malattie particolari che ha permesso loro di mantenersi in attività anche oltre i 65 anni di età?
Certo, l’attività fisica regolare è uno dei fattori che contribuiscono all’invecchiamento in salute, ormai questo concetto è ampiamente accettato. Ma se l’obiettivo è quello di rispondere a una domanda specifica come quella appena formulata, che riguarda non una situazione generica ma un gruppo di individui con determinate caratteristiche, le cose non sono così semplici come possono apparire. E non ci sono scorciatoie che tengano: per giungere a conclusioni solide servono dati, analisi, confronto… e molto tempo.
Lo studio di Elliot è, infatti, in corso ma il messaggio generale è chiaro: dedurre quale sia lo stile di vita più sano dalle abitudini di un singolo centenario è sbagliato per definizione. L’unico modo per affrontare il problema è prendere in considerazione un campione statisticamente rilevante, ossia fare riferimento a conoscenze che sono state confermate nel tempo e che derivano da studi che siano il più possibile completi.
Occhio al “bias della sopravvivenza”
C’è poi un preconcetto specifico di cui Elliott parla nell’articolo: in inglese si chiama “survivorship bias”, bias della sopravvivenza. Questo ha ancora una volta a che vedere con la smania di giungere a conclusioni troppo facili per essere vere. Certo, possono esistere centenari che hanno condotto stili di vita bizzarri e incompatibili con le conoscenze accumulate in secoli di ricerca scientifica, ma ciò non significa che quegli stili di vita siano da seguire per l’invecchiamento in salute. Perché? Semplice, perché noi possiamo parlare solo con chi è sopravvissuto. E per qualunque esempio di stile di vita, più o meno sano che sia, esisterà una fetta di popolazione che non ha raggiunto i 100 anni di età, o che non ne ha raggiunti nemmeno 90, 80 o 70, e che quindi non potrà sconsigliarci di consumare cibi fritti a pranzo e cena ogni giorno.